Non chiamatela più flora intestinale : il nome corretto è microbiota

L’intestino non è il solo a lavorare alla digestione del cibo per l’organismo: lo aiuta una popolazione di microbi che svolge attività metaboliche e nutrizionali, ha funzione protettiva e stimola la risposta immunitaria di fronte all’attacco di agenti patogeni residenti o arrivati dall’esterno. Tutti i microrganismi dell’intestino, in parte autoctoni e in parte di origine ambientale, fanno parte del cosiddetto microbiota, ovvero l’insieme di tutti i microbi che abitano dentro e sulla superficie del nostro corpo: il loro numero è pari a 10 volte quello delle nostre cellule, che sono circa 10 mila miliardi.

Nell’intestino umano è presente il cosiddetto microbiota intestinale, un sottoinsieme del più generale microbiota, ma certamente il più ricco e importante. Pesa circa 1 chilogrammo e mezzo ed è composto da circa 500 specie di batteri diverse tra loro, divise in 45 generi e 14 famiglie: alcune sono utilissime, come Bacteroides thetaiotaomicron, che aumenta enormemente la capacità dell’organismo di metabolizzare i carboidrati, altre invece possono diventare nocive, come il Clostridium difficile, la cui azione in genere viene arginata dalla presenza di altri microbi, ma che in alcuni casi può causare diarrea e febbre.
La popolazione di microbi “buoni” dell’intestino (che sono la grande maggioranza), tra l’altro protegge l’ospite, cioè l’uomo, producendo il muco che fa da barriera tra i microrganismi e le cellule che formano le pareti dell’intestino. Inoltre stimola la risposta infiammatoria e le difese immunitarie nel caso di un attacco al nostro organismo.

Per questi motivi il microbioma è diventato un campo di estremo interesse per tutta la medicina, perché a differenza di alcuni fattori che non sono modificabili e che incidono sull’insorgenza di malattie – come l’età e la genetica – modificare il microbioma si può. Almeno in teoria.


Nel 2010, uno studio eseguito da alcuni ricercatori dell’Ospedale Meyer e del dipartimento di Farmacologia dell’Università di Firenze ha rivelato che alcuni bambini del Burkina Faso, abituati a una dieta quasi vegetariana e ricchissima di fibre, hanno nell’intestino una popolazione di microbi molto più ricca e varia rispetto a quella contenuta nell’intestino dei coetanei fiorentini, abituati a mangiare zuccheri, grassi, carne e molte meno fibre. E che i primi soffrono molto meno rispetto ai secondi di malattie autoimmuni non trasmissibili.

L’impoverimento del microbiota sarebbe alla base della recente diffusione di patologie tipiche della società contemporanea, come il cancro del colon, le malattie autoimmuni, ma anche dell’obesità, di patologie depressive e disturbi d’ansia. Secondo le ricerche del microbiologo Usa Justin Sonnenburg, quando la nostra dieta si impoverisce di fibre, i batteri abituati a metabolizzarle, non trovandone più a disposizione, attaccano il muco che protegge l’intestino dagli altri microbi e questi ultimi, arrivati a contatto con le cellule intestinali, provocano un’infiammazione.
Sarebbe proprio l’infiammazione cronica causata dalla dieta errata e dal conseguente assottigliamento del muco protettivo a scatenare le patologie “occidentali” (del resto, quasi del tutto sconosciute alle tribù di mangiatori di fibre). Una dieta più frugale, al contrario, stimolerebbe i batteri a produrre composti chimici utili all’organismo, come il butirrato (che si trova anche nei formaggi stagionati), capace secondo i ricercatori di proteggerci contro alcune malattie come il morbo di Chron, grazie al suo potere antinfiammatorio.




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