La riscossa del cavolfiore


Come molte cose che hanno caratteristiche forti e pungenti, per non dire sgradevoli, il cavolfiore ha vissuto per anni nell’angolo della vergogna delle “verdure che puzzano”. Come i cavoli, con i quali effettivamente ha in comune proprio la famiglia, quelle delle crocifere (talvolta in italiano anche crucifere, come si leggerebbe nel nome latino del genere) le piante a forma di croce. Tra le quali il cavolo cinese, il cavolo verza, il cavolo cappuccio, i cavolini di Bruxelles e il cavolo nero. 

La puzza del cavolfiore non è dovuta alla cattiveria della verdura, che anzi sotto il profilo nutritivo sembra avere quasi i super poteri, ma all’alto contenuto di zolfo che è racchiuso nella pianta. Online i trucchetti per limitare questo piccolo difetto sono tantissimi: dal mettere una pallina di pane nell’acqua che bolle, o un cucchiaino d’aceto, oppure cuocer l’ingrediente nella pentola a pressione. Altrimenti c’è da dire che non c’è nessun obbligo di bollire il cavolfiore, lo si può friggere, infornare, passare in padella, in pastella, fermentare, fare in agrodolce o sott’olio. Qui l’odore è di gran lunga più circoscritto. Perché ci si accanisca, sempre, a bollire tutte le verdure, rimane un mistero. 

Superato lo scoglio dell’odore pungente, veniamo dunque alla delizia. Ne La Grammatica dei sapori e delle loro infinite combinazioniNiki Segnit dedica ampio spazio al cavolfiore e consiglia, per dare uno sprint al sapore tutto sommato delicato di questa verdura, di accompagnarlo a gusti forti e speziati, a formaggi molto stagionati, peperoncino piccante e cumino. Citando poi l’abbinamento più insolito e raffinato: il cavolfiore con il cioccolato di Heston Blumenthal. 

Scrive Segnit che quando lo chef “voleva dimostrare al cavolfiore quanto lo amasse, pensò al cioccolato. Il risultato fu un risotto al cavolfiore con un carpaccio dello stesso ortaggio e una gelatina al cioccolato. L’idea era che ogni componente rilasciasse il suo sapore in sequenza, culminando in uno scoppio amaro, dovuto al cioccolato incapsulato, che secondo Blumenthal era come un espresso alla fine del pasto. Per il piatto preparò un brodo di cavolfiore, dei dischi di cavolfiore, cavolfiore essiccato, vellutata di cavolfiore, dadi di gelatina al cioccolato e dischi di gelatina al cioccolato. Solo allora si mise a fare il risotto”. 

Nel suo libro sulle bucce, Lisa Casali sottolinea che il cavolfiore si può consumare in ogni sua parte, producendo scarto zero. Considerando che è una pianta raccolta da maggio a novembre (anche se non è difficile trovarlo per il resto dell’inverno) ampiamente coltivata in Italia da secoli, si capisce bene perché il cavolfiore merita tutta la rivincita che si sta prendendo, e con esso tutte le verdure che hanno vissuto per anni in uno stato di sudditanza psicologica rispetto ad alimenti considerati più nobili e più pregiati. La carne, il pesce, il formaggio, le uova. 

Tornando alla questione dell’utilizzo in cucina, Casali suggerisce come utilizzare torsolo e foglie, oltre alle cime, la parte che abitualmente si consuma più spesso e più facilmente. Vista la consistenza robusta delle foglie, “si prestano decisamente a preparazioni cotte” ma “sono adatte anche a essere fermentate per trasformarsi in un ottimo kimchi”. Mentre per quanto riguarda il torsolo, vista la fibrosità può essere ridotto in piccole parti per diventare una crema o una tartare. 

In una ricetta del libro di Cucina Vegetariana Contemporanea di Al Tatto, il cavolfiore viene usato in un piatto, gli gnocchetti mantecati, sifone di patate alla cenere e salvia fritta, per sostituire il burro, insieme a olio, aglio e salvia e mantecare la pasta in modo 100% vegetale. Pescando dall’Oriente invece, il cavolfiore si presta bene alla preparazione Kung Pao, un piatto classico nella cucina di Szechuan dove sostituisce il pollo, per finire marinato e in padella con aceto di riso, salsa di soia, cipolle, peperoni, peperoncini e tanto altro.  

E qui mi fermo, ma si potrebbe andare avanti all’infinito. Ora nel cavolfiore c’è sicuramente un aspetto positivo che serve a bilanciare quello olfattivo: è l’estetica. E infatti una delle cose più sorprendenti del cavolfiore è che le varietà, da crude, assumono sfumature di colore bellissime. La GDO ne ha fatto un elemento di marketing e quindi non è raro trovare nei banchi del supermercato - a cui preferisco raccomandare mercati o vendita diretta da azienda - scatole in plastica già confezionate con le varietà, viola, verdi, bianche e arancione. Non senza stupore ho appreso che nel mondo anglosassone quest’ultima varietà, per via del suo colore dato dal beta carotene, viene chiamata “cheddar cauliflower”. 

Infine, siccome la natura non è mai avara, esiste anche una tipologia non propriamente arancione ma più propriamente avorio. È il caso del cavolfiore di Moncalieri, presidio Slow Food dal 2019, coltivato a ridosso delle colline a sud di Torino: “Fino agli anni Settanta, non c’era famiglia contadina dell’area che non coltivasse questa cultivar, particolarmente apprezzata e ricercata anche sui mercati per via delle ottime caratteristiche organolettiche, ma poi è quasi scomparsa” scrivono nella scheda-prodotto Slow Food. Oggi la proprietà sopravvive grazie a una piccola ma agguerrita produzione biologica e a un tentativo di rilancio che coinvolga anche i ristoratori di zon. Se non è riscossa questa!

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